Cosa mi metto oggi?
Sentiamo continuamente parlare di moda, di stile, di immagine. Consumiamo riviste, blog, libri, trasmissioni in cerca di ispirazione e anche i social media sono canali importanti per trovare ispirazione, idee di stile ed outfit da copiare.
Ma, sarà capitato anche a voi, alla fine al mattino di fronte alla visione arruffata dell’armadio scegliamo per andare al lavoro sempre la stessa giacca, la stessa maglia, lo stesso paio di scarpe.
Se abbiamo tempo e non siamo di fretta, allora ci concediamo magari un tocco di colore con il make up, magari un rossetto nuovo. Eppure la sensazione di vestire un’uniforme più che un abito rimane. E negli anfratti più bui dei nostri armadi e cassettoni giacciono dimenticati capi colorati, scollati, fioriti, capi che ci fanno sentire bene e vitali ma che, non si sa perché, riserviamo solo alle grandi occasioni.
Il tema dell’immagine di sé professionale è un tema molto delicato e sfaccettato che va ben oltre la scelta della “solita” giacca blu.
Quando ci vestiamo, in realtà noi “sveliamo” parti di noi profonde.
Vestirsi è un atto molto comunicativo, che ci mette in contatto con gli altri in modo immediato e non verbale.
Spesso sentiamo dire che nel lavoro non c’è mai una “seconda buona impressione” che bisogna apparire professionali e sobri e che per essere professionali e sobri dobbiamo indossare la giacca, la camicia chiusa fino al colletto e (se siamo signore) i tacchi.
La verità è che l’immagine professionale comprende non solo l’abito ma anche il portamento, il tono della voce, la postura, l’energia con cui stringiamo la mano e tutte le infinite microespressioni inconsapevoli del viso.
Un viso stanco, una postura curva, un passo strascicato in realtà son ben più importanti di una giacca o di una cravatta messa alla bell’e meglio in ascensore.
La verità è che l’immagine professionale rispecchia la percezione che abbiamo di noi stessi e del nostro lavoro.
Quando decidiamo di mettere la nostra “armatura” e di indossare sempre le solite cose, stiamo semplicemente scegliendo di non uscire dalla nostra zona di comfort, anche se questo ci fa sentire scialbi, svolgiati, trascurati.
Questo vale anche se svolgiamo un lavoro che prevede, per sua natura, una vera e propria uniforme: pensiamo a infermieri, medici, operai, benzinai, receptionist, commessi. Quanto conta il sorriso sul viso di un’infermiera e quanto presto dimentichiamo la faccia annoiata di un vigile urbano in questura?
Facciamo un piccolo esperimento: provate a ricordare i nomi del farmacista, del panettiere, dell’impiegato che si è occupato del rinnovo della patente.
Li ricordate? Cosa ricordate di loro?
Spesso non ricordiamo la persona, ma solo il suo ruolo.
Eppur ricordiamo perfettamente la segretaria gentile, il commesso competente, il professionista rassicurante: queste persone ci hanno lasciato qualcosa, sono rimaste nella nostra mente e diventano presto il simbolo della professionalità in un certo campo: “Lui sì che è un medico!” Oppure “Ecco come si fa la commessa!”.

Quando tengo lezioni sul personal branding o quando mi capita di guidare un cliente nelle sue scelte comunicative, io preferisco sempre affrontare l’argomento dalla fine, cioè da quello che vogliamo che gli altri vedano di noi.
Spesso i professionisti che investono sulla loro immagine professionale confondono la sobrietà con l’anonimato.
Quando cerchiamo un lavoro migliore, quando desideriamo trovare nuovi clienti, quando dobbiamo semplicemente pensare a come “fare carriera” dimentichiamo infatti la cosa più importante, perdiamo di vista l’essenziale: il nostro lavoro non è un “non-luogo” in cui la nostra personalità svanisce.
La professionalità non è affatto la negazione della nostra persona, del nostro carattere e delle nostre peculiarità. Proprio il contrario.
In comunicazione si sente spesso dire che il brand (che per le persone è di fatto l’immagine professionale) è “ciò che dicono di te appena esci dalla stanza”. Il brand è il motivo per cui siamo scelti e ricordati, per cui si attiva un passaparola o per cui veniamo assunti.
È proprio questa immagine non verbale, unica e comunicativa che è la forza di un brand. Un brand, specie se personale, funziona se ha carattere e se si distingue.
Esattamente l’opposto dell’idea di uniforme, di sobria uniformità.
Non ricordiamo tutti gli infermieri, ma l’infermiera gentile e sorridente e i suoi colorati ombretti. Dimentichiamo la receptionist sgarbata, ma rammentiamo la barista con la molletta arancione che ci ha disegnato un sorriso sulla schiuma del cappuccino.
Ma allora, vi starete chiedendo, questa immagine professionale che cos’è? E se non conta l’abito cosa conta?
Contate voi. Conta quanto mettiamo di noi stessi nel nostro lavoro. Conta anche quanto ci prendiamo cura di noi, perché prendersi cura di noi significa anche aver cura dell’altro.
E non stiamo parlando di bellezza, di moda o di canoni estetici.
Pensate da clienti, chi vi ispira maggiore fiducia e professionalità: il manager sciatto e in grigio, impeccabile ma spento o la receptionist acqua e sapone con la maglietta gialla e la voce gentile?
Ricordiamo un professionista principalmente per quanta passione mette nel lavoro che fa e nel servizio che ci offre e ricordiamo un collega per la gentilezza con cui si rivolge a noi, ai superiori e ai sottoposti.
Domattina, appena svegli, aprite l’armadio e fermatevi prima di afferrare in automatico “quella” camicia e “quella giacca”. Non domandatevi “Cosa mi metto oggi?” quanto piuttosto “chi voglio essere oggi?”.
Il primo abito che indossiamo è il nostro modo di stare al mondo. E se siamo felici, soddisfatti, gentili e sorridenti anche i nostri clienti, capi, collaboratori ci percepiranno in modo positivo e probabilmente ci riconosceranno stima e rispetto.
Caterina Giannottu per Studio Sé